mercoledì 25 agosto 2010
Recensione: Beautiful Malice
12:33 |
Pubblicato da
lacrimadicrisantemo |
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Autore: Rebecca James
Titolo: Beautiful Malice
Editore: Einaudi (Stile Libero Big)
Prezzo: 17,50 €
Pagine: 296
Recensione di: Chesy & Zia Mad
Un po’ tutti avrete sentito almeno nominare questo romanzo, considerato il caso editoriale dell’anno e tanto conteso dalle case editrici alla Fiera del Libro di Francoforte, tanto che siete stati proprio voi lettori a chiederci una recensione sul romanzo. Perciò, prima di cominciare, per quei pochi che non hanno ancora un’idea precisa del romanzo in questione, vi riportiamo a un articolo piuttosto esaustivo (e anche breve) in proposito.
È un libro moderno, o quantomeno è quello che esso cerca di fingersi, poiché sotto la sua maschera si cela ben altro. È una storiella così, campata in aria, e lì resta per tutto il seguito della narrazione. Forse è proprio questo che dà fastidio al lettore: la viscidità delle parole, della storia in sé, di una finta “morale” che scivola come un drappo di seta e se ne va via. Non lascia nemmeno un briciolo del suo fascino, benché, d’altronde, scrutando attentamente, non ne ha nemmeno un filamento. Tale fascino viene inevitabilmente corroso, solo questo. È un retrogusto che stranamente può sapere di cenere.
È un libro di quelli che devi assorbire tutti d’un fiato, altrimenti rischi di non arrivare a finirlo, e portartelo come un peso per troppo tempo che, ovviamente, avresti potuto dedicare a letture migliori. È un libro di quelli che, una volta finiti, necessitano di alcuni minuti (minuto più, minuto meno; insomma la quantità di tempo necessaria a ciascuno di noi) per accusare il colpo e fare in modo che si riesca a darne un giudizio piuttosto soggettivo, non più suggestionato dalle voci che ne parlano in giro, ma totalmente sottomesso a ciò che noi consideriamo la realtà dei fatti. È, come tutti, un libro con i suoi pro e i suoi contro, e sarà nostro impegno esaminarli uno per uno.
La trama ricorda vagamente i soliti telefilm americani, è ricca, direi quasi rimpinzata come un panino, di cliché e situazioni comuni che si possono trovare in qualsiasi luogo di questo piccolo mondo. I personaggi sono stereotipati, e più che altro cercano, in maniera che a volte risulta anche un po’ goffa, di inquadrare la società odierna. Sebbene la critica ad essa sia sommessa, quasi impercettibile (la scrittrice si limita a raccontare i fatti, quasi che le circostanze fossero solo i casi più favorevoli a far accomodare per bene la sua storia), sono proprio gli errori nelle azioni di questi burattini australiani a infastidire il lettore. Come quando in una partita di calcio si prende a rimproverare il calciatore, nonostante sia impossibile che egli ci senta o solo si accorga di noi, si è portati a pensare come sarebbe stato facile se solo si fosse agito in una maniera più “giusta”. Ecco, venire immersi in questa realtà di merda lascia sbigottiti, i difetti vengono a galla, gli episodi diventano man mano più tragici e insulsi. Non tanto banali, quanto idioti.
E come in uno di quei telefilm, il tutto viene diretto ad un pubblico sano per mutargli segretamente il cervello in qualcosa di demenziale e che si lascia abbindolare, in qualcosa di ipnotico e assurdo. E man mano che questo traspare, ci si trova davanti a una di quelle soap-opere fastidiose, ove da una puntata all’altra tutto si stravolge in ridicolo, cade nel precipizio. Si capisce, infine, che non se ne può più esserne sconvolti, ma si è consapevoli che alla prossima voltata di pagina gli occhi verranno sgranati nuovamente per ammirare l’idiozia di un mondo reale.
Spesso si tende a immergersi completamente in una storia, benché essa possa essere un fantasy o una science-fiction e quindi lontana dalla percezione comune, e perciò si assorbe come una spugna l’atmosfera che si vive nel libro, con il rischio che essa finisca per traboccare e lasciare le sue macchie nel mondo. E quindi un po’ spiace partecipare a una trama così, senza nulla che lasci qualcosa di duraturo e gradevole, senza nulla che sia altro ad eccezione di un moto di scossa per gli eventi finali e un’indifferenza che si fa sempre più forte. Indifferenza che poi ha il sopravvento, e non ti permette di giudicare il romanzo né una lettura piacevole (poiché ciò che viene narrato all’interno non può assolutamente considerarsi tale), né uno di quei romanzi che sanno, per quanto “dolorosi”, lasciare un’impronta nel tuo animo di lettore.
Certo, nella sua banalità, nel suo ritratto specifico dei lati più meschini della natura umana, in fin dei conti suscita alcune riflessioni. Riflessioni concentrate sul valore della morte di una persona cara (e qua, per evitare spoiler, la Zia si trova costretta a tacere; e no, non è la sorella della protagonista, se state pensando questo), o del confronto, dell’assurda stupidità della protagonista, capace di affrontare il dolore nei suoi molteplici aspetti solo nel modo più ingrato. Quindi soffrendo, senza limiti, anche a distanza di tempo, inondando le pagine del libro con i suoi rimorsi e le sue continue citazioni agli eventi spiacevoli che le hanno sconvolto la vita. Citazioni pesanti e inutili ai fini della storia e che, se raggruppate tutte, formerebbero un intero capitolo dickensiano da buttare… ehm… da qualche parte. E per dickensiano, riferendomi a coloro che ancora non hanno letto nulla di lui, s’intende fino ad arrivare a circa 30 pagine scritte tutte fitto fitto. Tolte queste, del romanzo della James non rimarrebbe che un racconto lungo.
Concentrandoci un po’ più sulle riflessioni che porta il libro, e che sono uno dei suoi pregi più evidenti,la Zia avrebbe qualcosa da dire. Non tanto per accanirmi proprio con l’autrice, ma qualsiasi romanzo, riportando tematiche tali, può essere capace di suscitare circuiti di pensiero nel lettore, e magari con tanto di qualità insite in più. Poi, le opinioni riportate dalla protagonista sembrano quasi frasi costruite nell’aria: non so e non pretendo di sapere se l’autrice, nello scrivere, si sia rifatta a vicende familiari o che in qualche maniera la coinvolgono, ma ho sempre ritenuto che sia un po’ come impicciarsi negli affari degli altri scrivere di dolori altrui. C’è chi lo fa bene (perfettamente, azzarderei, ripensando appena ad Hosseini), chi benino come la James, ma resta sempre quell’amaro di fondo in cui dici: “cavolo, questo mi è davvero capitato, ma io non ho reagito così. Anzi.” Anzi… è come confrontarsi con un fantasma. Ti viene descritto il dolore di qualcosa che non c’è, o meglio non c’è più.
La James cerca di iniettare nella storia svagate situazioni, cerca di far riflettere sul dolore, e se si può essere felici di una morte. E tutto è stranamente confuso, non potendo essere altro... La protagonista porta la sua vita che è insita di morte come un gran fardello insopportabile, ne condisce causticamente le pagine, tanto che è impossibile trovarne una in cui Katherine non ne faccia riferimento e non si pianga addosso. L’esistenza di Katherine Patterson viene quindi scossa da un individuo, che strascica la sua lingua velenosa da dietro, che si specchia ad occhi incomprensibilmente opachi, incapaci di in distinguere la personalità ambigua, con cui la James si diverte ad appiattire il tutto.
Forse è proprio questo il mezzo pregio della storia. I personaggi appaiono marionette, né più e né meno, s’abbigliano della nostra civiltà e si specchiano in noi. Chesy li definirebbe quasi giovani deformanti, un abbozzo mal riuscito, un quadro stropicciato per cercarne la fosca e lurida perfezione.
Un comportamento quasi istintivo di ogni lettore è quello di affezionarsi a un personaggio, e in un certo qual modo parteggiare per lui durante la sua corsa fra le pagine del libro. Bene, con Beautiful Malice ciò non è capitato. Ogni personaggio ha il suo difetto che te lo fa odiare distintamente, o che comunque te lo rende o antipatico o semplicemente indifferente. Rachel è un’ingenua, Alice una perversa; Katherine è stupida, Robbie insensato, e così via per tutte le comparse del romanzo. D’altra parte, e qui c’è una nota amara, sai di riconoscerti in ognuno di essi, sia per i difetti che per delle azioni che ritrovi vergognosamente nel tuo passato.
Qua si scade nell’inverosimile, l’inverosimile del nostro telefilm che gioca a sostenere castelli in aria e quindi ipotesi che lasciano senza fiato, finendo per far appunto sfracellare la sabbia, non più sostenuta dall’assenza di gravità di un’Australia innocente rispetto all’aberrante trama imbastita da mani ancora fin troppo esordienti. E tutto si rivela stilla per stilla, fino a quando arrivi a una certa pagina (pagina 200 o giù di lì, per essere precisi), in cui le pagine si scollano dal dorso e cascano anormalmente in terra. Tanto che pensi sia stato tu a provocarlo, ma poi t’accorgi che è proprio un difetto della casa Einaudi. Irrimediabilmente non ricomponibili, i fogli voleranno appena il vento spirerà più forte, serbando l’odio intrinseco per la storia. E parliamo sul serio, quando diciamo che le pagine si stacchino, nel vero senso della parola, e che il dorso si abrasi del tutto da lì in poi. Evento capitato alla Zia tanto quanto a Chesy.
Quando finalmente l’attenzione cresce, si nota ed è evidente che la James si annoi nello scrivere. Poiché le parti più congeniali alla storia vengono saltate misteriosamente, finendo poi come feti abortiti in un limbo che ti lascia lo scialbo desiderio di sapere cosa sia esattamente successo. Nel frattempo pure Alice, accompagnata dalle parti mai scritte, saltante balza in modo oscuro nel canale di scolo e si fa investire.
Poi c’è la questione dell’amicizia: dal sottotitolo pare che sia il fulcro di tutta la narrazione, ma leggendo quasi quasi ti viene da pensare che non sia così. È palese, e tale convinzione aumenta più ci si avvicina alla conclusione, che Alice non sia propriamente un’amica, sia per il suo carattere instabile e forse anche malato, sia per qualche oscuro motivo che la spinge ad essere così abominevolmente accanita contro la protagonista. Insomma, di riflessioni sull’amicizia non ce ne sono poi così tante, né esse vengono imposte al lettore: l’amicizia di Beautiful Malice è corrotta in ogni sua sfaccettatura, così come ogni rapporto della società moderna d’altronde, e quindi si è spinti a rigettarla in un angolo e a non pensarci più di tanto.
L’amicizia, ovvero il sottotitolo di sfondo, dovrebbe giocare un ruolo importante. Si legge “L’amicizia può uccidere”. Ma se volete la cruda verità, questa gioca l’ultimo ruolo della nostra amata soap-opera, una base musicale in sottofondo che pare allietare il lettore, quando invece è proprio questa che ne induce a far attecchire il fuoco al romanzo.
Alice Parrie, dall’alto, saluta.
E da che la tacita e timida Katherine voglia mantenere il silenzio sul suo oscuro passato, sapendo che questo l’avrebbe potuta portare in luoghi sconosciuti, incurante spiattella comunque tutto stravolgendo il suo carattere drasticamente, in maniera a dir poco irreale. D’altro canto si vive in un mondo onirico, dove il viaggio può portarti alla scoperta di nuove cose, tipo l’amicizia che… ehm.. è talmente ripugnante che la considereremmo un obbrobrio all’essere, perché è qui che l’animo umano si rende ingenuo… ma ingenuo lo si può essere fino a un certo punto, e gli eccessi fanno sempre male. Invero l’eccesso di Katherine viene pagato amaramente.
Lo stile della James è semplice, come si addice a uno scritto in prima persona dal punto di vista della giovane Katherine. Le frasi sono nette e brevi, permettono una lettura veloce, cosa che fa scorrere il libro anche quando la trama può apparire piuttosto statica sul livello narrativo.
Il libro è molto dialogato, e forse questo è un pregio del romanzo, perché non annoia. Però le mancanze si fanno notare anche qui. Sembra quasi che i personaggi abbiano tutti la stessa voce, o perlomeno lo stesso modo di parlare, così come le espressioni dei volti paiono prese con lo stampino. Questo perché troviamo espressioni giovanili in bocca a una madre di mezza età, e sempre dagli adulti traspare un linguaggio eccessivamente confusionario. Lo stesso che per di più viene usato da alcuni ragazzi ubriachi, la cui unica caratteristica che aiuta a distinguerli da altri è che essi hanno una voce “lenta e impastata”, come se stessero cercando di ingoiare… nutella?
Inoltre, tutt’a un tratto, si può incappare in termini eccessivamente eleganti e complessi per la situazione, che stonano con tutto il resto. Non si pretende che l’autrice sappia dare una sfumatura diversa a ogni parlata dei personaggi, ma che almeno riesca a distinguere le fasce di età e affibbiare un lessico più adatto all’evenienza.
Un altro aspetto fastidioso è la punteggiatura, usata malamente nonostante ci troviamo ad avere a che fare con periodi semplicistici. Perché la James frammenta osticamente le frasi. Mette virgole che non avrebbero il minimo bisogno di rimanere in quella valle già fin troppo occupata, e potrebbero benissimo andare a scorrazzare da altre parti. Verso luoghi affascinanti e alquanto inesistenti.
In compenso le descrizioni sono decenti, non perfette, certo, ma nettamente migliori rispetto a quelle di altri libri. Del resto Chesy non pretende mica che gli si descriva il bozzolo sul lobo dell’orecchio, ma viene il dubbio, vedendo che la James descrive la sensazione di avere un bozzolo sulla nuca, duro come una pietra ma che si scioglie come zucchero dopo pochi attimi. E quindi visi e luoghi prendono piacevolmente sembianze accurate.
Parte della trama è facilmente intuibile, non tanto dalle anticipazioni esplicite che da la stessa narratrice, ma dall’esposizione dei fatti, e infine un po’ ti soffermi a chiederti come alcuni personaggi abbiano potuto essere così ciechi. D’altro canto, ci sono lassi di tempo in cui Rebecca James salta subito alle conclusioni, lasciando la narrazione in un limbo in cui non ti resta che chiederti cosa sia successo nel frattempo, e perché l’autrice non ne abbia parlato, sebbene potendo liquidare il tutto anche solo con una frase sbrigativa ma d’obbligo. Il romanzo è poi diviso in due parti, la prima molto più lunga della seconda, e notando la brevità di esso mi pare una scelta totalmente assurda e priva di significato. Ci sarebbe stata molta meno confusione rendendo il tutto un unico manoscritto, dati i capitoli a loro volta brevi e capaci di fornire armoniosità alla storia da soli.
Ci troviamo in diversi piani di narrazione, che si avvicendano di capitolo in capitolo, in cui seguiamo tre periodi di vita della protagonista: la sera dell’uccisione della sorella, il presente (molto offuscato) e il passato della cosiddetta “rinascita”, in cui si narra tutta la vicenda della fatale amicizia con Alice. Passato che occupa gran parte della narrazione rispetto agli altri due livelli. Leggendo, la Zia ha avuto il dubbio che prima o poi l’autrice avrebbe combinato qualche pasticcio, perché proseguendo nella lettura le pareva logico che da un momento all’altro, di capitolo in capitolo, sarebbe finita a confondersi e a non distinguere più se stesse leggendo del passato, del presente, del futuro. Ma deve dire che, con piacere, così non è stato, benché alcuni tratti possano apparire egualmente vacillanti come un ponticello di corda su un baratro oscuro.
Il romanzo è anche sconclusionato. Lascia alla tua fervida fantasia il gusto di cosa sarebbe accaduto dopo, dopo l’ultima frettolosa pagina. Quella che trae infatti non è una vera conclusione. Per carità, con dei personaggi così idioti, che si gettano nel canale di scolo o nel mare in tempesta, o lasciano scolare di birra la sorella quattordicenne, cosa si può pretendere? Almeno il piacere di non concludere atto o pensiero glielo dovete dare. E così finisce il libro, non capendo nitidamente quale sia il vero pensiero di Katherine. Personalmente lo stregatto Chesy, nel prologo, è riuscito a diagnosticare che la protagonista soffre di paranoia ed è affetta da delirio persecutorio, dove vede la Crudelia Demon della sua vita apparire al supermercato vendendole alte dosi di veleno, o in riva al mare mentre usa il suo corpo come pistola per macinarle il cuore. Ma questo può anche rimanere, visto che sono dei personaggi psicologicamente approfonditi.
Un plauso alla copertina, anche stavolta formidabile, è dovuto. La scritta da cui si dipartono i fili spinati attrae, è un’idea originale che t’avvinghia. Il nero scuro della versione italiana, o in alternativa il rosso (appartenente a quella britannica) fanno pensare alla bellezza della malignità in maniera contorta. Quasi attrae il fatto che il male possa avere qualcosa di bellissimo in sé, e alla fine, se ci si sofferma, non è poi tanto sbagliata come concezione. Peccato che qui la Bellezza sia Alice, e la malignità sia semplicemente la sua pazzia crudele. Un’interpretazione un po’ deludente di un concetto così alto.
Ciò che non torna è davvero il bisogno di tentare il suicidio più volte, e dopo ridere di questo, perché è forse questo che ne resta del titolo. La malizia di Alice, la sua torbida follia, crudele e spietata, assurdamente ambigua, che porterà a conclusioni affrettate, le quali dovrebbero fungere da colpo di scena che in realtà non è. Per questo il romanzo risulta piatto ed infine la domanda “si può essere felice di una morte?”, ritorna inspiegabilmente col prologo. Le sorelle Boydell svaniscono via, la felicità non è la morte della sorella perfetta.
«Non ci sono andata al funerale di Alice. Ero contenta che fosse morta.»
È la morte di chi ti ha distrutto la vita che ti rende felice, ma non è forse vero che senza la persona della cui morte ora sei felice non avresti mai compiuto le cose che ora ti stanno più a cuore?
Voto: 2 cappe-code e mezzo
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giovedì 5 agosto 2010
Recensione: Chocolat
12:40 |
Pubblicato da
Chesy Sehnsucht |
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Recensione: Chocolat ( Joanne Harris )
Titolo: Chocolat
Autrice: Joanne Harris
Trama: La bella e intrigante Vianne Rocher si trasferisce con sua figlia Anouk nel piccolo e ordinato villaggio di Lansquenet per aprire "La Celeste Praline", una golosa pasticceria. La loro presenza diventa presto un elemento di disturbo per il giovane curato, ma di gioia, colore e felicità per il resto del villaggio.
Prezzo ( edizione per ipovedenti! ) € 13,90
Editore: TEA- Tascabili degli Editori Associati.
Recensione a cura di: Chesy.
Buongiorno Amici!
Oggi, spero di riuscirci, vorrei presentarvi un libro che amo, un libro che definire stupendo è dir poco. Sto parlando del best-seller mondiale Chocolat, dell’amata Joanne Harris. Allora, cominciamo la recensione parlando un po’ dell’autrice.
Joanne Michèle Sylvie Harris (Barnsley, 3 luglio 1964) è un scrittrice britannica di madre francese e padre inglese. Ha vissuto la sua infanzia fra cibo e folklore nel negozio di dolciumi dei nonni. Adesso wikipedia mi viene a dire che sua nonna era una strega: io non so bene in che senso voglia intenderlo ^^’ quindi non aggiungo altro in merito.
Joanne ha studiato presso la scuola media di Wakefield e si è laureata presso il St Chatarine’s College di Cambridge, in lingue medievali e moderne.
Il suo primo romanzo è Il Seme del Male ( The Evil Seed, 1989 ). Ultimo romanzo tradotto in Italia dalla garzanti, tanto per farvi capire che il suo primo romanzo ci arriva come l’ultimo. Mentre Chocolat ( 1998, data di uscita inglese ) è colui che l’ha resa famosa in tutto il mondo. Da cui è stato tratto l’omonimo film, che tra l’altro io non ho visto, ma spero di farlo al più presto, dove il ruolo dello zingaro Roux viene interpretato da Johnny Depp.
Chocolat è un libro frizzante, pieno di passione e magia, pieno di odori e sapori che invitano ad essere odorati, toccati e mangiati. Pensate, io in tre giorni di sola lettura ho consumato una tavoletta di cioccolata, ehe ehe, purtroppo è questo l’effetto del libro. È inevitabile non essere attratti da una tazza di cioccolata, da un pacchetto col nastro d’argento che contiene chissà quale prelibatezza, forse la tua preferita. Perché la nostra cara Vianne sa i preferiti di tutti, trucchi del mestiere naturalmente. Vianne è una strega, benché lo nasconda gelosamente.
I personaggi del romanzo mi hanno affascinato molto, sono stati stupendi, ognuno con la sua caratteristica, non personaggi piatti, ma con doppie facce e tanto spessore, ognuno ha un proprio ruolo che a fine libro porta inevitabilmente a termine. Li ricordo tutti, uno per uno, da Caroline Clairmont; odiosa e antipatica figlioletta viziata, cerca solo il bene della madre vecchia e sfrenata in preda alla morte, che vuole recludere in una casa di cura; ad Armand Voizin, la madre ( decisamente il mio personaggio preferito ) che tra sfuriate e strappi alle regole del diabete riesce a vivere i suoi ottant’anni come una ragazzina, fra balli e feste e tante tazze di cioccolata, e tartufi.; Luc Clairmont, piccolo genio di quattordici anni reso un bambino di poco più di cinque anni dalla madre iperprotettiva. E poi Guillaume Duplesis, simpatico signorotto col suo fedele e fidato cagnolino Charly; e poi Joséphine Bonnet, donna emancipata dai mille volti… ; Roux lo zingaro dalla capigliatura scarlatta; poi Anouk, la figlioletta di Vianne col coniglietto pantoufle sempre apresso, coniglietto immaginario creato con la magia… e potrei continuare all’infinito fino a Francis Reyunaud, il prete, l’uomo nero, la morte.
Chocolat è un libro che affascina, è un libro che tiene incollato alle pagine, ti da la sensazione di avere lo stesso cioccolatino, prelibato, durante tutta la lettura, è un cioccolatino che non si scioglie mai, allieta malgrado, allieta coi suoi pettegolezzi e gli intrighi di famiglia. È un libro da leggere, da leggere sia per un estate calda e afosa e sia in un inverno innevato rinchiusi con una tazza di cioccolata calda dentro casa. Io, quando l’ho cominciato, diciamo che il mio intento era una sfogliata per vedere lo stile dell’autrice, non ne sono uscito più. Pensavo di chiuderlo per continuare la mia altra lettura, ma – ribadisco – non ne sono uscito più. È un libro travolgente, appassionante, avvincente… con tattiche studiate per farti restare incollato, benché io cercavo di gustarmelo è scivolato via lasciandomi una curiosità letale.
I capitoli, la storia, sono in prima persona. Capitoli impersonati dalla nostra cara Vianne che dietro il bancone della sua cioccolateria sfama bocche, ne aiuta altre, scava nell’animo della gente e ti vede per quello che sei veramente, non per quello che la gente, i pettegolezzi, ti fanno credere. E poi c’è lui… inevitabilmente tattica che invidio, stupenda. Quella di scrivere capitoli in prima persona, ma dal punto di vista del nemico. È una cosa geniale, che ti fa approfondire la psicologia del male, la perversione della Chiesa… perché benché essa cerchi di fare troppo bene eccede, e gli eccessi sono sempre puniti. Non è l’eterna lotta male e bene, no! È bene/bene – male/male. Ognuno con le sue ragioni, seppur limpide o fosche, ognuno coi suoi obiettivi. Chi alla ricerca di Dio, chi della felicità.
Mi pare che ci sia un dialogo fra Vianne e Guillaume, dove quest’ultimo chiede a Vianne a cosa crede ( Vianne non è Cattolica ). Lei, nella sua testa ci pensa, lei crede a tante cose, ma non gli risponde ai culti della sua infanzia, Vianne scava nel suo cuore e risponde che quel che crede è alla felicità. Lei crede nella felicità e in quello che questa possa dare, e accompagna tutto col sorriso.
Insomma in questo libro c’è una dosa di fluff ( tenerezza ) che ti si scioglie in gola come un ennesimo cioccolatino ripieno di praline. Vianne è unica.
La sua cioccolateria da un tocco di originalità e colore ad un paesino grigio della Francia. E mentre tutti accorrono ad assaggiare le prelibatezze elargite da Vianne pian piano la quaresima giunge al suo termine, e dopo aver rotto i voti… s’avvicina la pasqua… e s’avvicina il festival del cioccolato, organizzato dalla cioccolatiera.
Il prete, rigorosamente votato ad un Dio che teme, vede La Céleste Praline come un albero che affonda le proprie radici nella terra per infestare Lansquenet dal diavolo. Un diavolo che si presenta offrendo cioccolatini e si veste da donna affascinante e gaia, una donna che in sé si crede Angelo… ma inevitabilmente ostacola colui che gli si mette davanti. E costui è l’uomo nero.
Stavolta Vianne, che è venuta portata da un vento che l’ha costretta a vagare per tutto il mondo, resterà o una corrente la soffierà via spodestandola?
***
Preparo le code, scelgo le migliori, le arruffo per benino, raccolte fra loro le mostro con una nota d’orgoglio.
Risultato= 5/5
Consigliato? Avete dubbi?
Certo, prendetelo subito, la Harris è una maga.
P.S: Il seguito è Le scarpe rosse.
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